sabato 31 dicembre 2011

Savonarola vs Paperoga: decrescita e endogenità delle aree valutarie ottimali

(Dopo il successo di Keynes vs. Tabellini, chiudiamo l’anno con un altro scontro fra titani).



Vi ho parlato in un post precedente di Lars Jonung, il Paperoga che con incredibile tempismo pubblicò nel 2010 un bell’articolo di elogio dell’euro, prendendosi subito una meritata pernacchia da Krugman (la versione working paper è qui).

Abbiamo constatato a suo tempo come tutte le saccenti critiche del simpatico paperopolese verso gli economisti statunitensi gli si siano ritorte contro: tutto quello che gli americani avevano previsto sta succedendo, come era anche abbastanza ovvio che accadesse. Ma è abbastanza interessante andare a vedere che argomenti usasse il palmipede per proclamare il successo dell’euro, e soprattutto per vilipenderne i detrattori (nel 2010). Insomma, vorrei con voi sezionare il papero, dopo aver sezionato nel post precedente l’oca.

L’OCA endogena
Il rilievo principale che Paperoga/Jonung solleva a quei dilettanti di Krugman, Feldstein, Dornbusch, ecc. è che essi usano una teoria vecchia, la teoria delle aree valutarie ottimali. Bisognerebbe, dice il simpatico e sfortunato pennuto, usare una teoria più recente, quella delle aree valutarie ottimali endogene. Una teoria molto bella, molto élan vital, che si basa sul principio molto democratico del primum vivere, deinde philosophari (caro ai fascismi di tutto il mondo).

La teoria dell’oca (Optimum Currency Area) endogena dice infatti che anche se una zona non è ottimale dal punto di vista valutario (perché (1) non c’è sufficiente mobilità dei fattori; (2) il sistema produttivo dei paesi membri non è abbastanza diversificato; (3) la flessibilità dei prezzi e dei salari è ostacolata; (4) i tassi di inflazione e gli altri fondamentali non sono allineati, ecc. ecc.), i politici possono fregarsene e andare avanti (vi ricordate di quello che diceva “noi tireremo dritto”?) perché la nuova unione monetaria creerà da sé le condizioni della propria ottimalità. Cioè, in parole povere: la strada sbagliata porterà nel posto giusto. Che è quello che ci sentiamo ripetere da anni da Modigliani, poi da Prodi, ecc.

In termini aulici, le condizioni di ottimalità di un’area valutaria sono endogene, cioè prodotte dal sistema. L’OCA è endogena. E come? Qui viene il bello...

Il falso problema
Piccolo inciso: la principale linea di attacco per lo studio empirico dell’ottimalità di un’area valutaria è partita da un presupposto errato: quello che entrare nella moneta unica comportasse la rinuncia a una politica monetaria autonoma. Sì: avete letto bene. Sto proprio dicendo che per l’Italia entrare nella moneta unica non ha comportato la rinuncia a una politica monetaria autonoma. E perché? Semplice, perché già non la aveva. E da quando? Semplice, da quando sono stati liberalizzati i movimenti di capitale.

Il modello di Mundell-Fleming, che sta all’economia internazionale come il prezzemolo alla cucina italiana, dice una cosa molto semplice: una piccola economia aperta in caso di cambi rigidi e di perfetta mobilità di capitali non può fissare il suo tasso di interesse a un livello diverso da quello prevalente nei mercati internazionali. E il motivo è semplice: se prova a fare una politica più restrittiva, alzando il tasso di interesse, si trova inondata di liquidità proveniente dall’estero, attirata dai rendimenti elevati, e il tasso scende. Se invece desidera fare una politica più espansiva, abbassando il tasso, i capitali fuggono all’estero, e il costo del denaro all’interno del paese aumenta, perché ce n’è di meno (legge della domanda e dell’offerta, caposaldo della Goofynomics). Chiaro, no?

Bene: l’Italia era in un regime di cambio fisso ma aggiustabile con la Germania praticamente dal 1979 (con alterne vicende). Già da prima che i movimenti di capitali venissero liberalizzati (all’inizio degli anni ’90) si parlava di German dominance: l’Italia non aveva una sua politica monetaria autonoma, ma doveva seguire il tasso di interesse fissato dalla Bundesbank. Si  diceva che l’euro avrebbe risolto il problema, perché invece di seguire le decisioni tedesche, avremmo tutti democraticamente concorso a fissare la politica monetaria comune. Eh già. Lo diceva Modigliani. Ovviamente non è successo: l’euro è proprietà dei tedeschi o di chi la pensa come loro, e questo era ovvio, tanto che perfino io sono riuscito a prevederlo! Ma a molti non sembrava e non sembra così.

Naturalmente l’euro portava con sé anche un problema vero: la rinuncia alla politica valutaria, cioè a lasciare che il cambio seguisse la legge della domanda e dell’offerta, o a interferire con questa dinamica in base agli interessi propri, non a quelli altrui. Ma questa è un’altra cosa, che non sembra interessare né a Paperoga, né a Spennacchiotto (mentre Goofy, come sapete, se ne preoccupa).

La falsa diagnosi
Nell’ottica del falso problema (rinuncia a una comune politica monetaria), l’unica difficoltà veniva vista nel fatto la politica monetaria comune potesse non adattarsi alle esigenze dei singoli membri. Era il problema dell’one size (does not) fit all. E quando è che una stessa politica monetaria va bene per tutti? Quando tutti sono nella stessa fase del ciclo (economico). Cioè quando la recessione o l’espansione si manifestano contemporaneamente in tutti i paesi membri. Se sono tutti in recessione, una politica comune espansiva andrà benissimo. Se sono tutti in espansione, una politica comune restrittiva sarà ottima. E allora il falso problema suggeriva non tanto di monitorare i differenziali di inflazione (che sono la causa della crisi attuale), ma la sincronia dei cicli. E giù a studiare i cicli, sperando di poter definire un comune ciclo economico europeo sul quale tarare la politica monetaria.

La falsa terapia
Ma ecco il colpo di genio! Si sveglia Andy Rose, che forse potremmo paragonare a Spennacchiotto (inventore malvagio), il quale scopre (a trattati europei firmati, controfirmati e entrati in vigore) che l’euro creerà da solo le condizioni della propria sostenibilità, perché promuoverà il commercio a tal segno che i cicli dei paesi si sincronizzeranno. Perché la promozione del commercio farà sì che se un paese entra in espansione, avendo legami commerciali intensi con i partner europei, se li tirerà dietro: più crescita da me, più importazioni, quindi più esportazioni da te e più crescita da te. Voi direte: ma questo vale, simmetricamente, in caso di recessione, quindi se uno cade, ed è legato da vincoli commerciali forti coi partner, se li tira dietro. E certo, cari i mei Goofynomisti! Ma questo non è un problema, per Spennacchiotto, e perché? Semplice: perché se cadiamo tutti insieme, la Bce interverrà, con la saggezza e l’indipendenza che le sono proprie, facendo una politica comune espansiva, e ci tirerà su tutti insieme. E allora voi chiederete: scusa, ma non si potrebbe fare la stessa cosa se, poniamo, 16 paesi cadono e uno solo rimane in piedi? Risposta: ehi, amico, mi stai dicendo che devo fare una politica espansiva rischiando di portare la fottuta inflazione nell’unico paese che ce la sta facendo? Avete capito, no? Solo se i cicli di tutti sono sincronizzati si può intervenire anticiclicamente senza creare inflazione da qualche parte.

Stimando un gravity model su un panel di 186 paesi che copriva svariati decenni per un totale di 33903 osservazioni (se non sapete cos’è, non preoccupatevi: nemmeno lui. Dovremmo chiedere a qualche suo anonimo doctoral student), Spennacchiotto trova che l’incremento di commercio determinato dall’entrata nella moneta unica sarebbe stato dell’ordine del 200%, cioè il commercio intra-europeo sarebbe triplicato. Fischia! In questo modo certo che i paesi si sarebbero mossi compatti su e giù per il ciclo, e politiche one size fits all avrebbero funzionato. Meno male. Sctaapposct... come dicono i miei adorati pescaresi (sta a posto).


Il gol della bandiera
Povero Rose/Spenna. Prima di compilare l’elenco sterminato dei motivi assolutamente palesi per i quali la sua idea era proprio una ca..., una vera cazza..., una grande, gigantesca, strepitosa ecc. (vedete che anche Berlusconi serve), diamogli però atto di aver fatto un tentativo estremamente generoso: quello di riscattare l’onore della professione economica dopo che la classe politica le aveva dato un sonoro cinque in faccia adottando una decisione che tutti gli economisti preconizzavano come catastrofica. E il povero Spennacchiotto, in queste circostanze, ha fatto quello che gli economisti fanno di solito: ha piegato la schiena (sui libri) e ha cercato di dimostrare che in effetti la decisione dei politici era quella giusta. Una fuga in avanti verso l’assurdo, direte voi. Sì, ma a fin di bene, dico io. Omnia munda mundi. Parce sepultis. A noi piace ricordarlo così, a 90° sui libri.

OCA vecchia fa buon brodo
La prendo larga. Sapete che mi piace fare uno stucchevole sfoggio di erudizione, e quindi intanto comincio col dirvi che l’idea che l’OCA possa essere endogena non è assolutamente nuova, tant’è che essa è adombrata niente meno che nel paper di Mundell (1961) che ha posto le basi del dibattito. Ma credo che né Spennacchiotto né Paperoga lo abbiano mai letto: il primo perché opera sulla frontiera della ricerca, e quindi non può perdere tempo con i classici del pensiero, e il secondo perché troppo occupato a trarre ispirazione dai soldi che la Commissione gli passa. E se a Paperopoli i classici non li leggono, leggiamolo noi, economisti di Topolinia, il brano in questione, perché è istruttivo. Se non altro, ci ricorda che gli economisti, quelli veri (i Goofynomisti), sono persone di buon senso.

Verbum Domini:

“In Europa la creazione del Mercato Comune è vista da molti come un passo importante verso l’unione politica, e il tema dell’unificazione monetaria fra i sei paesi membri è stato molto dibattuto... Meade sostiene che le condizioni non esistono e che un sistema di cambi fissi sarebbe più efficace nel promuovere la stabilità interna e l’equilibrio della bilancia dei pagamenti, soprattutto perché in Europa la mobilità del lavoro è insufficiente; Scitovsky viceversa è favorevole perché ritiene che la moneta unica condurrebbe a una maggiore integrazione dei mercati finanziari, ma poi aggiunge che bisognerebbe intraprendere misure per rendere il lavoro più mobile e facilitare politiche dell’impiego sovranazionali... Nonostante l’apparente contraddizione, il conflitto è empirico, non teorico. Entrambi concordano che l’ingrediente essenziale deve essere la mobilità dei fattori; ma Meade crede che la mobilità necessaria non esista, mentre Scitovsky sostiene che quella del lavoro può essere migliorata, e quella del capitale sarebbe stimolata dalla creazione della moneta unica”.

Cioè... per Meade le condizioni per un’OCA sono esogene, e in Europa non ci sono. Anche per Scitovsky queste condizioni non ci sono, ma l’OCA concorrerebbe a determinarle, cioè le condizioni sono endogene. La logica del dibattito Meade vs Scitovsky è esattamente la stessa di quella del dibattito Krugman vs Paperoga. Ma tutto questo Paperoga non lo sa, perché succedeva più di cinquanta anni or sono. E per chi crede che l’economia sia una tecnica, leggere un paper di 50 anni fa è come provare ad ascoltare un vinile con un lettore CD. Non si sente niente. Quindi non vale niente.

Numeri a caso... per fortuna!
Spero la divagazione non vi sia sembrata inutile, e torno sul pezzo, altrimenti qualcuno poi mi rimprovera.

Che quello che dice Rose non è successo credo ve ne siate resi conto. Triplicare il commercio! Ma come si fa? Vorrei spiegarvi brevemente: (1) da dove ha tirato fuori questi numeri mirabolanti; (2) quali sono stati i veri numeri; (3) cosa sarebbe successo se i numeri di Spennacchiotto/Rose fossero stati quelli veri (cosa che per fortuna di Savonarola non è stato).

Ma faccio solo una fulminea premessa: be it as it may, il problema comunque non era quello della sincronizzazione dei cicli (via commercio), ma quello dei differenziali di competitività. E questo problema (quello vero) l’euro lo ha amplificato. Ce lo dicono i compagni del Fmi.

200%... de che?
Dato che si occupava di un falso problema, lo studio di Spennacchiotto ha dato vita a una letteratura sterminata. Il povero Richard Baldwin, che ha cercato di mettervi ordine sei anni dopo l’articolo di Spennacchiotto, si è trovato di fronte più di 100 titoli. E molti di questi mettevano in evidenza errori logici piuttosto seri nel lavoro di Spennacchiotto. Adesso non vi parlo di matching in modelli non lineari con self-selection (però è così bello da dire!). Vi dico solo che nel campione di Spennacchiotto c’erano 130 episodi di abbandoni di unione valutaria, e solo 16 episodi di ingresso, riferiti, tra l’altro, a paesi in fasi molto diverse del loro sviluppo. Ora, dato che normalmente si abbandona un’unione monetaria o in seguito a una guerra di liberazione, o in seguito a un Armageddon economico (or both), è chiaro che gli episodi di abbandono pesavano parecchio. In altre parole, il 200% stimato dall’amico Spenna era non tanto il guadagno dell’ingresso, quanto il costo dell’uscita (misurato per lo più su ex-colonie durante l’ondata di guerre di liberazione post belliche, dall’Algeria in giù – in ordine alfabetico).

Baldwin fa un resoconto molto divertente (almeno, per me) di quello che successe a una certa conferenza di Ginevra, dove Spennacchiotto si trovò di fronte Torsten Persson che sostanzialmente lo ridusse a un pizzico. Ma Spennacchiotto/Rose, resiliente come il suo avatar di Paperopoli, tornò alla carica con un secondo articolo: è vero, mi sono sbagliato, l’effetto non è del 200% ma del 20% (fatti i dovuti matching, e considerando sempre che misura più il costo dell’uscita che il guadagno dell’entrata). Però l’effetto c’è. Grande Spennacchiotto!

E grande l’economia! L’unico sport nel quale puoi vincere una partita perdendo 10 a 1. Perché Spenna la partita l’ha vinta, e come. La fiducia di Paperoga/Jonung nel fatto che l’euro sia una buona idea e Krugman un coglione da cosa deriva? Avete indovinato: proprio dallo studio di Spennacchiotto, ma ovviamente non quello coi numeri giusti (Rose, 2001), ma quello coi numeri sbagliati di un rapporto 10 a 1 (cioè 200 a 20; Frankel e Rose, 2000). Perché se usi i numeri giusti la "nuova teoria", che piace tanto a Paperoga, porta alle "vecchie" conclusioni (anche perché nuova non è). E le vecchie conclusioni sono che l'Europa non è una Optimum Currency Area, e non può diventarlo "endogenamente" solo perché politici interessati a tagliare i salari reali decidono di far finta che lo sia. Ma siccome Rose nell'articolo sbagliato diceva quello che alla "dominant social force behind authority" interessava sentire, ecco che Rose, perdendo 10 a 1, ha vinto la guerra: la sua idea assolutamente ridicola dell'endogenità delle aree valutarie ottimali ha acquistato nel dibattito una dignità che assolutamente non meritava, solo perché funzionale alla logica del potere costituito, e anche, non dimentichiamolo, al riscatto dell'onore della professione.
Voi direte: ma Paperoga/Jonung ha scritto il suo lavoro nel 2009. Possibile che non sapesse che nel frattempo la scienza era andata avanti? E io vi chiedo: sembra a voi possibile che uno che in un modo o nell’altro è arrivato ad aggreppiarsi a Bruxelles sia interessato alla scienza!? Certo che no. Ma ammettiamo che lo sia: magari avrà anche saputo che la letteratura scientifica era andata avanti, rivedendo le conclusioni sulle quali si basavano le sue paperoghesche certezze, ma rimaneva il problema di contare i denari. Sono sempre 30, ma meglio non fidarsi. Caro Lars (Paperoga), quello che tu non sai, e che suscita la nostra pietas, oltre alla tua sterminata paperogaggine, è che quei 30 denari lì non potrai restituirli, neanche quando vorrai farlo: “und er warf die Silberlinge in den Tempel, hub sich davon, ging hin, und er hängete sich selbst”. Buon anno Lars. Quando oscillerai verremo a cantarti "was gehet uns das an". Che poi significa "e 'sti cazzi?". Sono sicuro che Alex, Antonino, Marco ecc. si offriranno per fare un bel coretto. I "Madrigalisti moderni". Il professor Santarelli verrà a completare il quintetto. Chiedo scusa per la Passione secondo Matteo, che è fuori tempo liturgico, ma non off-topic: la storia dell'euro è anche una storia di (molti) Giuda.

Brevemente i veri numeri
Non tutti gli economisti lo sono. Baldwin trova che una stima corretta del vantaggio (in termini di commercio) derivante dall’ingresso in un’area valutaria ottimale sia intorno al 9%. La metà di un decimo di quello trovato da Spennacchiotto. E decisamente troppo poco per tenere insieme i cicli. Del resto, i professionisti sanno che nella sincronizzazione dei cicli gli spillover commerciali sono meno rilevanti di quanto si creda . Se poi sono così piccoli, l’idea che l’OCA sia endogena rimane campata in aria.

E Savonarola?
Aspettate, arriva anche lui. E questa volta nel ruolo del vincitore morale. Perché quello che a me fa letteralmente sbellicare dalle risate, al di là della totale goffaggine tecnica del lavoro di Rose, è l’idea allucinante che i problemi (in questo caso, quelli di sincronizzazione del ciclo) si possano risolvere... triplicando il commercio! Capite cosa vuol dire? Triplicando quindi il trasporto di merci dal paese A al paese B. Incrementando la spesa dei cittadini del paese A in beni del paese B. L’osservazione più banale che mi viene in mente è questa: e come la trasportiamo tutta ‘sta roba? Savonarola, quello della depilazione, giustamente inorridirebbe. E inorridisco anch’io, non solo di fronte allo scenario (che per fortuna non si è materializzato), ma anche di fronte al fatto che uno possa pubblicare una roba simile su una rivista referata e nessuno gli dica: “scusa, le tue merci hanno le gambe? E le Alpi come e dove le passano?”. Insomma: se Rose/Spennacchiotto avesse ragione la TAV Torino Lione sarebbe utile! Invece ha torto, e la TAV è inutile. Del resto, Spennacchiotto (in compagnia di Gambadilegno Frankel) ci ha anche dimostrato che il commercio ha effetti benefici sulla qualità dell'ambiente. Furbo, no? L'obiezione l'aveva prevista, il buon Andy Spennacchiotto Rose. Certo, ora che sapete come ottiene i suoi mirabolanti risultati non so se avrete voglia di starlo a sentire.

Ecco. I fondamenti teorici dei benefici dell’Unione Monetaria hanno questo spessore. In effetti, trenta denari non mi sembra nemmeno li valgano. Ma il progresso rispetto a 2000 anni fa è che oggi i neogiuda la paga se la decidono loro. Non si era parlato di tagli? Vado a tagliare lo zampone.





Dedicato a Robert, che mi trova insopportabilmente elitario. Concordo. Ora che gli ho citato il trio Medusa e i madrigalisti moderni, mi detesterà ancora di più perché sono troppo enciclopedico. Ma al di là del fatto che mamma mi ha fatto così, e c’è poco da fare, vorrei chiedergli: hai capito a quali Giuda ci siamo messi in mano, vero?

mercoledì 28 dicembre 2011

Decrescita... de che?

(Il titolo è in romanesco).

Nei momenti di crisi globale ricorre un atteggiamento descritto da un’efficacissima parola europea: Schadenfreude. Da Schaden (danno) e Freude (gioia), che poi sarebbe appunto quella della Nona di Beethoven che tanto piaceva a Alex (DeLarge). La Schadenfreude è il piacere maligno che si trae dallo spettacolo dell’altrui male (quindi ha poco a che vedere con il “suave mari magno” di Lucrezio, che maligno non era, e infatti al secondo esametro aggiunge “non quia vexari quemquamst iucunda voluptas”). Questa “voluptas”, una delle poche che la natura matrigna riserva a quelle strane bestie che sono gli economisti, le suocere, e il beghiname vario, è in grandissima parte motivata dal poter dire “io l’avevo detto”, cioè dal trovare nell’Armageddon un valido, anzi, il più valido, alleato per l’affermazione delle proprie teorie. Se poi nell’Armageddon ci finisce anche lo Schadenfroh, meglio pure: a “voluptas” si aggiunge “voluptas” (il masochismo).

Gli esempi non mancano. Quando nel Medioevo organizzammo il nostro vivere civile aggregandoci in città (è la “rivoluzione urbana” descritta tanto bene da Carlo Maria Cipolla), dando al nostro mondo quell’impulso che l’ha portato ad affermarsi su altri all’epoca ben più avanzati (quello arabo, quello cinese), ci trovammo a dover fronteggiare qualche problema di congestione, con conseguenze non banali. In effetti, anche a quel tempo c’era chi pensava che l’economia si rilanciasse con le grandi opere (le crociate): di costruire cessi non se ne parlava, nonostante i Romani (che una certa auctoritas ce l’avevano) lo avessero prudentemente fatto nelle loro città, prima di lanciarsi alla conquista del mondo. La crisi si presentò nel 1348, sotto forma della prima epidemia “globale” di peste, che, come ben sapete, arrivava dritta dall’Oriente (perché la globalizzazione, si sa, è una neocosa neomoderna, l’abbiamo inventata noi dieci anni or sono negli editoriali del Manifesto...). Ed è facile immaginare che all’epoca qualche stralunato anacoreta ne approfittasse per calare a valle e incitare il popolo al pentimento e alla riforma dei costumi, sotto la sferza del “gladius Dei”, assaporando il suo fottuto quarto d’ora di celebrità.

Poi, siccome Dio c’entrava poco, e l’igiene personale molto, l’anacoreta moriva pure lui, e una volta che la peste aveva ristabilito condizioni di vita decenti, attraverso quello che gli economisti oggi chiamano un haircut della popolazione, si ripartiva, con salari reali più alti (perché la Goofyepidemiology ci insegna che non c’è niente di meglio che una bella peste nera per risolvere il problema della disoccupazione - la guerra va meno bene perché distrugge anche il capitale fisso).

Ogni riferimento alle strane teorie piddine/manifestine circa la relazione fra spread e immoralità dei governanti è ovviamente intenzionale. Ieri lo spread era a 511... sarà mica che il nostro premier è un’acqua cheta?

Sezionando un’oca
Mi veniva in mente questo simpatico quadretto ieri, ascoltando Gustavo su Radio3 a “Tutta la città ne parla”, mentre mi dedicavo al sezionamento di un’oca, anzi, di un locio (hoc facite in meam commemorationem: avere avuto una nonna toscana obbliga a riti cruenti).

Gustavo diceva le cose sensatissime che dice da tempo e che troppo pochi ascoltano: vi esorto, qualora non lo aveste fatto, almeno a rileggerle, se non volete sottoscriverle.

In sintesi, le manovre di austerità che ci vengono proposte sono totalmente assurde, perché qualsiasi studente del secondo anno sa che in un periodo di recessione le politiche di tagli alla spesa, anche se accompagnate da paralleli tagli alle imposte, che peraltro non si vedono, hanno effetti profondamente depressivi. E questo non lo dice Piga o (umilmente) Bagnai, ma Trygve Haavelmo, che ha preso un Nobel per l’economia nel 1989. Siamo insomma in pieno mainstream, come ovviamente non sanno quei buontemponi che mi appiccicano l’etichetta di “antagonista” (a chi?). Oltre a essere totalmente assurde, sono anche contra legem, perché il Trattato sull’Unione Europea prevede che in circostanze eccezionali le regole di “disciplina” fiscale siano sospese (per i dettagli leggetevi Gustavo). Sarebbe quindi il caso che il governo, invece di risparmiare, spendesse, per rilanciare, con il suo stimolo, investimenti e consumi privati. Perché la tanto deprecata “spesa pubblica” si trasforma direttamente o indirettamente in redditi, che vengono poi spesi, cioè (attenzione) consumati dai cittadini, generando altri redditi. Si chiama moltiplicatore keynesiano.

Flashback
Per mia fortuna non butto niente. In questi giorni sto rileggendo, nei rari momenti di meditazione (che, abitando a Roma, capirete voi dove si svolgono), le annate di Linus attorno alla crisi del 1992. Il numero di maggio 1993 si intitolava “Conti in rosso” ed era tutto articolato attorno al tema della temperanza imposta dalla situazione di crisi. Vignetta di Maramotti a pag. 24: una signora dell’alta borghesia sta provando dei vestiti. La sarta le consiglia “se non le piace il ‘poveri ma belli’, se la toppa non le dona, c’è sempre il ‘dignitosa miseria’... Certo, si va un po’ su col prezzo...”. Cosa vedeva Maramotti, cosa vedeva Carlo Oliva, col suo “Elogio della ricchezza” a pag. 16: una cosa molto semplice: si fa presto a deprecare il consumo, quando si ha la pancia piena: “soltanto i ricchi elogiano la povertà” (grande,grandissimo Oliva!)

Sustine et abstine
Torniamo a Gustavo. Perché il tema della trasmissione era appunto questo: la recessione ci sta imponendo un nuovo stile di vita, sarà migliore, sarà peggiore, che bello il Natale senza sprechi, riscopriamo i valori, ecc. Garruli ascoltatori e ascoltatrici di area cattopiddina intervenivano col solito sms moralista (“meno male che c’è la crisi, finalmente dovremo cambiare il nostro stile di vita insostenibile”). Ma prima chi ve lo impediva?


Perché Gustavo, che è una persona sobria, stava solo cercando di far capire, se posso interpretare il suo pensiero, che la recessione è pericolosa, e che valutare in termini moralistici i consumi, pubblici o privati che siano, identificandoli con spreco e distruzione tout court, non è una strada per uscirne. Il consumo è anche un atto fisiologico: chi non consuma muore. Certo, una parte dei consumi collettivi (spesa pubblica) rischia di trasformarsi in mazzette imboscate all’estero, e certo queste non generano redditi nel nostro paese. Ma questo problema non è stato risolto né dalla destra, né dalla sinistra, né dall’euro, dal cui giogo gli ingenui (?) si aspettavano e tuttora si aspettano anche un’azione moralizzatrice (al grido di “meno male che c’è l’euro altrimenti i nostri governi sarebbero liberi di fare quello che vogliono”. E invece ora...). Lo vogliamo capire? Non è questo il momento per buttare via il bambino con l’acqua sporca. Distinguiamo (non: separiamo) i problemi economici da quelli politici.

Se poi il problema è che siete degli esteti dal palato sopraffino e non vi piace la parola consumo, allora proponetene un’altra. Chi ha la pancia piena ha tanto tempo per pensarci su! Ma il problema ora sono le pance vuote. E questa non è demagogia. Peraltro, il cambiamento dello stile di vita rientra nell’ambito delle scelte individuali. Due anni fa mi si è rotto il decoder e non lo ho ricomprato. Punto. Mi sono finalmente letto Federigo Tozzi (che tristezza, però!). Soltanto i ricchi elogiano la temperanza. Quella altrui, naturalmente. I poveri invece fanno le cambiali e poi si impiccano (la prima delle “Tre croci” di Tozzi, appunto), oppure mangiano fino a schiantare (la seconda), o si ubriacano fino al delirio (la terza). Quindi il consumo non è sempre buono, certo, ma nemmeno sempre cattivo. E in recessione è più buono che cattivo.

Servizio pubblico
E qui so che perderò tanti amici, in particolare M.B., ma non è mia intenzione. La mia intenzione è capire. Da voi sto capendo molto, magari mi aiutate anche in questo caso.

Perché il conduttore, dopo aver congedato Gustavo, ha chiamato in causa una persona della quale non ricordo il nome (sezionare un’oca richiede attenzione), che ha immediatamente aggredito l’assente Gustavo al grido di “non siamo delle termiti” (insetto sociale visto come metafora del consumo irresponsabile... ma perché, poveretto?). Era un anacoreta della decrescita. Il quale, ovviamente, si è subito sperticato in un elogio della crisi (Schadenfreude in variante masochista), che per fortuna ci sta impedendo di consumare il nostro pianeta. Certo. E poi, basta con il Pil, che non è un indicatore attendibile del benessere di una popolazione! Già. E si possono fare mille esempi di riduzione del Pil che costituiscono un aumento del benessere. Bene.

Esempio numero uno. Ogni giorno gettiamo una quantità di cibo buono (cioè ancora consumabile) nelle nostre pattumiere. Se ci limitassimo a non acquistarlo il Pil diminuirebbe, perché si ridurrebbe la deprecabile spesa per consumi, ma non staremmo peggio, anzi: mangeremmo ugualmente e avremmo meno rifiuti da smaltire.

Esempio numero due. Le nostre abitazioni sono estremamente inefficienti. Se avessimo delle case costruite razionalmente, come in Germania (il solito Leitmotiv, o, come diceva un mio studente, “light motif”, della superiorità ariana – Wagner come musica leggera...), sprecheremmo molti meno combustibili fossili per riscaldarle, e quindi il Pil diminuirebbe, perché si ridurrebbe la deprecabile, deprecabilissima spesa per consumi. Ma noi staremmo meglio e non comprometteremmo il futuro del pianeta.

Come è vero, come parla bene, avranno pensato i garruli moralisti di cui sopra. Orsù, compatti, riduciamo il Pil. Meno "pilu" per tutti. Depiliamoci. Un altro haircut.

Coming out: non sono eterodosso.
Cosa obiettare a questo Savonarola in sedicesimo (gladiolus Dei super terram)?

L’esempio numero uno funziona benissimo, purché nella pattumiera, al posto del cibo che non sprechiamo, gettiamo i soldi che avremmo speso per acquistarlo. E l’esempio numero due funziona benissimo, purché la casa “ecologica” si costruisca da sola.

Mi spiego. Il nostro stile di vita attuale è evidentemente incompatibile con la sostenibilità ambientale, nel senso che se esso venisse istantaneamente esteso oggi a tutti gli abitanti del pianeta, domani non ci sarebbe più nulla da “consumare”. E infatti invece di guardare il Grande Fratello o l’Inter mi leggo lo sfigatissimo Federigo Tozzi (morto di polmonite per aver dormito con una finestra aperta! Vedi se servono, le case ecologiche...), quindi consumo meno elettricità. Ma il Pil che c’entra? Nemmeno la più becera e oltranzista teoria mainstream della crescita, quella associata a un altro premio Nobel (Robert Solow), prevede che tutti i paesi debbano crescere “a manetta” per sempre. Nella teoria di Solow il tasso di crescita di lungo periodo è la somma di due elementi: la crescita della popolazione (che per noti motivi tende a zero al crescere del benessere), e la crescita del progresso tecnologico.

Ma il progresso tecnologico (cioè la crescita) è proprio... la decrescita! Già. Perché è grazie al progresso tecnologico che le nostre tecnologie possono diventare meno inquinanti (vedi le case teutoniche), e che i nostri consumi si riallocano da beni materiali a beni immateriali. La crescita del Pil non è più fatta solo di altoforni e centrali a carbone. È fatta anche di sviluppo software, agricoltura biologica certificata (e quindi servizi di certificazione), istruzione terziaria, energie rinnovabili, ecc. Tutti consumi ad alto valore aggiunto, che si associano a crescita del Pil (la mela biologica costa più di quella tradizionale, e forse finisce ugualmente nella pattumiera: in ogni caso, non abbiamo necessariamente decrescita, anzi...).

Attenzione: la mia non vuole essere una posizione ingenuamente positivista. Voglio solo attirare l’attenzione su un punto ovvio, sempre lo stesso: il problema è politico, non tecnico. È ovvio che di questa “crescita” buona non ce n’è abbastanza e sarebbe meglio che ce ne fosse di più, che investiamo poco in rinnovabili, in istruzione (non sia mai la gente capisse cos’è l’inflazione!), in tutela del territorio. Se vi piace decrescere, pensate che costa meno, non più, un funerale a valle che una riforestazione a monte, quindi è il funerale che fa diminuire il Pil, mentre la spesa pubblica, correttamente indirizzata, oltre a far aumentare il Pil potrebbe evitare il funerale. In realtà "preferiamo" la crescita cattiva perché l’azione pubblica è indirizzata non da una razionalità collettiva comunque individuata, ma dall’azione di gruppi di potere (lobby), cosa pacificamente ammessa dalla teoria positiva della politica economica. E allora prendersela con il Pil nei termini che vi ho abbastanza esattamente riferito è demagogia.

Perché in fondo il semplice fatto che ci poniamo il problema è una diretta conseguenza del fatto che grazie alla nostra superiorità tecnologica abbiamo abbastanza soldi, cioè abbastanza Pil, in tasca da poterci consentire certe riflessioni.

La Goofynomics della decrescita
Parliamone. L’idea di fondo sembra essere che occorra un cambiamento di stile di vita o un investimento iniziale per ridurre i consumi, ponendo le basi di una decrescita, unica strada possibile per la sostenibilità ambientale. Bene, ripartiamo dalla pattumiera. Cambio il mio stile di vita e compro la quantità giusta di cibo, per cui non lo spreco, i consumi si riducono, io sto meglio, ecc. Ma... mi sono rimasti dei soldi, giusto? Perché se ho comprato meno cibo per nutrire la pattumiera, ho più soldi in tasca, no? E con quei soldi cosa ci faccio?

Ecco, questo Savonarola non lo diceva. Ma non ci vuole molta fantasia per fare delle ipotesi, visto che le possibilità sono due: o li spendo (e allora ho solo sostituito un consumo, indubbiamente dannoso, con un altro, forse meno dannoso, chissà...), o li risparmio. Se li consumo, ovviamente non c’è stata decrescita. Attenzione: non sto dicendo che non ho fatto la cosa giusta: riducendo uno spreco ho fatto la cosa giusta, solo che se poi i soldi li spendo in altro modo il Pil quello era e quello rimane: sarà un Pil migliore, ma non è decresciuto. Se invece risparmio i soldi accantonati riducendo lo spreco, si aprono due scenari: nel caso A il sagace sistema finanziario indirizzerà i sudati risparmi verso il solerte imprenditore che realizzerà qualche suo meritevole progetto (nel qual caso allo spreco di cibo si sostituisce l’acquisto di capitale fisso, e quindi non c’è decrescita, anzi, forse maggiore crescita nel medio periodo); nel caso B la finanza userà questo denaro fresco per gonfiare qualche bolla in giro per il mondo. E quindi da una buona decrescita sarà nata una pessima crescita.

Lo stesso discorso vale per la casa teutonica. A parte il fatto che costruirla costa soldi (ed è un bene spenderli, perché così si dà lavoro), e necessita, tra l’altro, l’importazione di tecnologie e materiali che non abbiamo, immaginiamo che si sia costruita da sola. Poi abitandoci risparmiamo. E con questi risparmi cosa ci facciamo? Mistero. Savonarola su questo taceva, suppongo per motivi di tempo.

Sintesi
Lo so: anche questa sembra Schadenfreude. Ma non lo è o comunque non vorrebbe esserlo. In realtà è un triplice invito.


Primo, capisco la necessità di essere diretti, soprattutto operando nei tempi radiofonici, cerco di esserlo anch’io quando mi intervistano, ma essere diretti non implica necessariamente essere demagogici, cioè privilegiare la capacità di persuasione rispetto alla coerenza logica. Probabilmente nella teoria della decrescita c’è di più di quanto vi ho riferito, ma questo è stato riferito a me e agli altri ascoltatori, e non è colpa mia se la Goofynomics mi obbliga a non fermarmi al primo anello di un ragionamento. Ci sarà pure un modo di essere coerenti e sintetici. Non sto dicendo che chi parlava avesse torto, sto dicendo che non mi ha fatto capire le sue ragioni (e io vorrei capirle), e secondo me non me le ha fatte capire perché ha cercato la scorciatoia del consenso.

Secondo, non esagererei con la retorica dei comportamenti individuali. Certo, è persuasiva, perché ci sentiamo tutti in colpa. Lo sappiamo benissimo che non c’è un singolo motivo al mondo per il quale siamo stati partoriti in Italia anziché in Burkina Faso. È andata così non per nostro merito, ma per caso, per quello che Lucrezio chiamava clinamen. E così se abbiamo sete basta che apriamo il frigo, ma sappiamo che altrove le cose non sono così semplici. E allora l’idea che dobbiamo “punirci” un po’, riformando i nostri consumi, ha un ovvio appeal, e magari è anche giusta, non so. Ma non perdiamo di vista il fatto che oggi il problema globale è non solo e non tanto nel circuito del consumo e quindi nei comportamenti individuali, ma in quello del risparmio e quindi nella struttura del sistema finanziario, cioè in cosa viene fatto coi soldi che individualmente risparmiamo (magari “decrescendo” virtuosamente).

Terzo, starei un po’ attento alle teorie “della Provvidenza”. Quello che ho detto ad agosto, e che Alex (il "nostro" Alex) su questo blog illustra con tanti begli esempi, è che le “teorie della Provvidenza” hanno un solo risultato: quello di spianare la strada all’“uomo della Provvidenza”. La cosa più eversiva oggi in Occidente è il buon senso. Quel buon senso dal quale ci vogliono sviare a botte di “neoquesto” e “neoquello”, cercando di convincerci che le “ricette” keynesiane sono vetuste e errate. Purtroppo la decrescita è oggettivamente un pezzo di questo contrattacco: basta pensare che il solerte giornalista di Radio3 l’ha usata come clava per smontare l’appello di Gustavo al buon senso e al vero rispetto dei trattati (sine dolo, naturalmente). Ma rimane il fatto che quelle ricette keynesiane, quel buon senso, sono quanto ha permesso all’Europa del secondo dopoguerra di essere, con tutti i suoi limiti, la società più decente mai sperimentata nella storia dell’umanità. Lo dice il solito Krugman.


P.S.: a proposito di teorie della provvidenza, un’altra teoria che ci salverà (almeno, secondo Paolo Barnard) pare sia la NMT (new monetary theory) di Randall Wray. E quindi ora me la studierò, e comunque vedete che ne parlo e ve la segnalo. Intanto ho visto che Wray è blogger sull’Economonitor di Roubini, insieme al Petersen Institute. Non lo conoscete? Ve lo presento: nel suo board siedono: Stanley Fischer (quello che dirigeva l’IMF quando ha mandato per stracci l’Argentina, per poi passare a Citicorp e infine diventare governatore della Banca d’Israele), Sergio Marchionne (le presentazioni sono inutili), Jean Claude Trichet (ibidem), Paul Volcker, Lynn Forester de Rotschild, ecc. Accipicchia! Se essere antagonisti significa trovarsi in una simile compagnia, quasi quasi mi faccio eterodosso! Non c’è che dire, gli Stati Uniti sono una grande democrazia! Quanta ce n’è! Direi perfino troppa. Sarà per quello che la esportano.

E così ora sono rimasto del tutto privo di amici. Meglio così: non sono mai stato deluso da un nemico!

Fonti
Carlo Maria Cipolla (1974) Storia economica dell’Europa preindustriale (2° ed., 2002), Bologna: Il Mulino, parte seconda, capitolo primo “La rivoluzione urbana”.



Dedicato alla compagna dell’aziendalista teppista, quella che non sapeva dire in cosa avesse limitato i propri consumi.

E a Renato, il violoncellista sanfedista, grande fan (con me) della Natura matrigna, nonostante lui risieda alle falde del formidabil monte sterminator Vesevo. Qui mira e qui ti specchia, secol superbo e sciocco.

giovedì 15 dicembre 2011

Liberalizzazioni: un gioco (politico) a somma positiva

Telegraficamente.

Il ministro Passera ha lamentato le incredibili resistenze incontrate dalle liberalizzazioni.

"Liberalizzazioni" è da qualche tempo il mantra di una certa sinistra (quella di destra). Ho cercato un giorno di farmi spiegare da un giovane brillante piddino cosa fossero esattamente. Mi ha spiegato che tagliare il deficit era necessario, ma che con le liberalizzazioni l'economia sarebbe ripartita, perché, ad esempio, abolendo l'ordine dei notai, le parcelle si abbasserebbero per effetto della concorrenza, e questo sarebbe un grande guadagno per i consumatori.

Il povero e tristo Gaddus ha una sola risposta per queste e altre discorse: "Già."
(dal solito Giornale di guerra, 31 luglio 1916)

Perché ci sono cose che se potessero essere capite non andrebbero spiegate. E se "la linea del partito" è che le liberalizzazioni ci salveranno, inutile provare a far capire al piddino di turno che dal notaio non si va tutti i mesi, mentre la pensione arriva (se arriva) ogni mese. Limitarsi ad annuire con aria compunta può salvare una serata, se non un'amicizia (caso mai qualcuno di voi abbia amici di questo tipo).

Ora, il fatto è che le liberalizzazioni finora sono andate male, molto male, come ammette candidamente Repubblica (che in teoria è l'organo di quelli che sarebbero favorevoli ad esse). Già, perché pare (dico pare) esse si siano tradotte in aumenti (anziché diminuzioni) di prezzi. Misteri della concorrenza! Chi se lo aspettava! Io sì, perché per lavoro insegno i fallimenti del mercato. Ma la linea del partito è che il mercato funziona, quindi...

Sta di fatto che un aumento dei prezzi è una diminuzione del salario reale e quindi ha un impatto recessivo.

E allora vorrei rassicurare Passera: se le tenga care queste resistenze alle liberalizzazioni, che gli fanno un gran comodo: lui comunque cadrà in piedi.

Infatti se liberalizzerà probabilmente farà contenti tanti amici (andate a leggere su Repubblica come è andata con le assicurazioni Rca: +184%!). Se invece  non riuscirà a liberalizzare otterrà due benefici certi: ex ante, quello di non rendere ancora più recessiva una manovra che già lo è, per ammissione della stessa Confindustria; ex post, quando la manovra avrà comunque avuto gli effetti da manuale che ovviamente avrà, e che l'ottimissimo Piga documenta così bene per il caso della Grecia, Passera avrà il vantaggio di poter dire, se qualcuno lo starà ancora a sentire, che le cose sono andate male perché, poverino, non gli hanno fatto fare le liberalizzazioni!

E i piddini (almeno, quelli che vanno tutti i giorni dal notaio) diranno: "già"...


(Dedicato a Michele, il tiorbista rosso).

mercoledì 14 dicembre 2011

I Bund: la bolla si gonfia...

Rapidamente.

Qualche tempo fa vi ho parlato della prossima bolla, quella dei Bund. Oggi, mentre i giornali italiani si affannano (poveretti) a deprecare la scelta di Cameron e a vaticinare le peggiori sventure per il Regno Unito, non possono però nascondere che gli investitori accorti si stanno tenendo sempre più alla larga dai Bund, e, guarda caso, lo fanno a vantaggio della sterlina. E fanno bene, per due motivi: il primo è che i Bund sono definiti in una valuta, l'euro, che domani potrebbe anche non esserci più (nella peggiore delle ipotesi... che però è sempre meno remota); il secondo, lo aggiungo io (ma non da solo), è che la Germania è una tigre di carta, che finora è vissuta alle spalle dei paesi periferici dell'eurozona, ma che d'ora in avanti (avendoli praticamente stesi) dovrà competere sul mercato globale. E lì per lei tira una brutta aria.

Esorterei però a non gioire troppo, nazionalisticamente, dei guai nei quali si trovano i "primi della classe". Sono guai ampiamente meritati, data la totale mancanza di visione strategica che denotano, ma che complicano la situazione. Perché, lo ho sempre detto: se fossi veramente sicuro che "i tedeschi sono migliori di noi", e che la soluzione della crisi fosse, come alcuni ingenui (?) dicono, "diventare un po' più tedeschi", sarei tranquillo. Ich spreche Deutsch.

Ma la soluzione mi sembra più complicata. L'unica cosa certa è che la gestione becera del dibattito politico interno alla Germania convincerà la parte più pericolosa dell'elettorato tedesco che la colpa è dei pigri del Sud. Che poi saremmo noi. A proposito, ci dormo su (ma trovare il sonno sarà difficile).

lunedì 12 dicembre 2011

Buiter a Roma

Un paio di informazioni di servizio.

Sono come tutti disgustato da quello che sta succedendo. Pensavo di prendermi una dose di IM (grazie Davide), ma poi ho scelto di dedicarmi per una settimana a quel cibo che solum è mio e ch'io nacqui per lui. Devo disintossicarmi. Quindi per una settimana non potrò rispondervi.

In ossequio allo scopo sociale di questo blog, nel caso abbiate bisogno, vi segnalo due ottimi economisti che dovrebbero essere di turno in settimana: Sergio Cesaratto e Gustavo Piga. Come avrebbe detto mia nonna, sono un po' ordinari, ma sono tanto due brave persone. E quindi anche se non sono sempre d'accordo con loro, sono sicuro di non sbagliare a segnalarveli (e sono certo che molti di voi li conosceranno).

Vi segnalo anche, per chi fosse a Roma, le Lezioni Caffè, tenute quest'anno da Willem Buiter (Chief Economist, CitiGroup) su "The debt of nations re-visited" il martedì 13 e mercoledì 14 dicembre alle 16.00 alla Facoltà di Economia (Via del Castro Laurenziano 9, Roma). Buiter è l'autore delle critiche più convincenti all'assurdità delle regole di Maastricht. Sarei curioso di sapere se ora che le stiamo rendendo ancora più assurde ha cambiato idea. Ma purtroppo non potrò esserci. Se qualcuno va e ce lo fa sapere glie ne saremo grati.

Segnalo infine un seminario dell'amico Mario Nuti  su "Scenari possibili dopo la crisi globale", il 14 dicembre alle ore 10.00 per l'Associazione Etica ed Economia, presso UVAL, Via Liguria 26, sala riunioni quinto piano (eventualmente con preghiera di confermare la partecipazione a redazione@eticaeconomia.it).

Aggiungo due parole.

La manovra ancora non esiste, la nuova Europa ancora non esiste, ma quel poco che se ne sa è già desolante.

Pareggio del bilancio vuol dire annullamento del rapporto debito/Pil nel lungo periodo (se non viene scorporata la spesa per investimenti), cioè abolizione del ruolo di intermediario finanziario dello Stato, quel ruolo al quale perfino Robert Shiller di Yale attribuisce una funzione stabilizzatrice del sistema (Irrational exuberance, Princeton University Press, 2000). Ma si sa, son tanti soldi, e quindi è utile avviarli alla stazione di pompaggio delle bolle finanziarie (leggi: mercati).

Se invece la spesa per investimento viene scorporata, si obbedisce alla morale vittoriana che vuole che ci si possa indebitare solo per cose "produttive", ma ovviamente si fa strame di tutta la ricerca che attribuisce un ruolo propulsivo al capitale umano, in termini di istruzione e benessere fisico della popolazione. Già, perché sono "consumi" dello Stato anche il mio stipendio, e quello di tanti più bravi e utili di me, o i reagenti usati in ospedale per fare le analisi del sangue, o il famoso carburante per le auto della polizia (esempi a caso). E così, mentre la Banca Mondiale ci segnala che la crescita della Cina è passata anche attraverso un miglioramento del suo capitale umano, noi, per non sbagliare, ci avviamo a distruggere il nostro.

Da parte nostra è altruismo. La teoria neoclassica della convergenza vuole che siano i paesi che sono rimasti indietro a raggiungere quelli sviluppati. Ma certo, se noi arretriamo gli diamo una mano a raggiungerci prima.

Basta, per una settimana voglio pensare ad altro.

sabato 10 dicembre 2011

Ma come fanno US e UK...

Mai sentito parlare di Louis Vierne? Era un organista francese, dalla vita particolarmente sfortunata: cieco dalla nascita, tradito dalla moglie, perse un fratello e un figlio in guerra, non riuscì a succedere alla cattedra di Guilmant in conservatorio, nonostante diciotto anni di precariato, e neanche a Widor nella titolarità dell’organo di St Sulpice. Gli toccò l’organo particolarmente inefficiente di Notre Dame, devastato dalle intemperie, e lui si sfiancò di concerti per tutta l’Europa cercando fondi per farlo restaurare completamente. E cinque anni dopo esserci riuscito, nel 1937, a 67 anni, morì riverso sulla tastiera del suo organo, al termine del suo 1750° concerto (e naturalmente chi sa la storia della musica, oltre a toccarsi, coglie l’allusione).

Che c’entra con la Goofynomics? Quasi niente, ma non sono riuscito a non pensare a questo aneddoto raccolto in conservatorio leggendo questo messaggio di un lettore:

“la gran bretagna ha un debito estero di circa 8000 mld $ +un debito pubblico al 44% del pil! come mai i mercati non l'affondano pur avendo a un pil di circa 2000 mld $ che è del tutto ridicolo dati questi debiti????????????????????”

Amico, intanto ti chiederei di rassicurarmi. Non farmi pensare che sei caduto riverso sul punto interrogativo della tua tastiera, come il povero Vierne sul mi della sua, o come (ma sì, spaziamo!) la conturbante Faye Dunaway sul clacson della sua auto in Chinatown. Preferisco pensare che l’abbondanza di punti interrogativi denoti incredulità, e magari un minimo di intento polemico, piuttosto che l’esito di un ictus (o di un proiettile nella nuca). Sarà senz’altro così, e allora provvedo a risponderti. La risposta sarà comunque istruttiva... per i superstiti!

L'aritmetica del debito estero

Dunque: partiamo dai dati. Il 44% di rapporto debito pubblico/Pil mi sembrava un po’ basso, e in effetti non è che sia un dato sbagliato, solo che si riferisce a prima della crisi. Nel 2010 era già al 75%. Eh già! Il debito pubblico UK è aumentato in tre anni di circa 30 punti di Pil, nello stesso periodo in cui il nostro aumentava di circa 15 punti di Pil. Ma certo noi partivamo da più alto e dovevamo quindi stare più attenti.

Gli 8000 miliardi di dollari di debito estero mi sembravano ancora più sbalorditivi, perché sono troppi se misurati bene, e troppo pochi se misurati male.

Mi spiego. Il debito estero viene usualmente valutato in termini netti. Quello che conta è la posizione netta: se ti sei fatto prestare 1000, ma hai prestato 2000, sei sempre in attivo di 1000 (so che non crederai a me, avresti usato una punteggiatura più sobria, ma credi almeno a Krugman). Ora, qualcosa di simile a 8000 miliardi di dollari di passività lorde sull’estero la Gran Bretagna ce l’aveva nel 2004 (per l’esattezza: 7981 miliardi di dollari). Solo che nello stesso anno la Gran Bretagna vantava 7549 miliardi di attività lorde sull’estero. E quindi, compensando i soldi che doveva agli altri (7981) con quelli che gli altri dovevano a lei (7549) si conclude che in quell’anno la posizione netta sull’estero era sì debitoria, ma per soli 431 miliardi. Circa il 20% del Pil, come gli Stati Uniti, come l’Italia (che nel 2004 stava leggermente meglio: solo il 16%). I dati vengono dal solito http://www.philiplane.org/EWN.html.

Certo, poi le cose sono peggiorate. Tieniti forte: nel 2010 il debito estero lordo del Regno Unito era di addirittura 14527 miliardi di dollari (fonte: International Financial Statistics, edizione 2010#12). Ma siccome il Regno Unito, a sua volta, aveva prestato al resto del mondo 14055 miliardi di dollari, ecco che la posizione netta non era molto cambiata: sempre in rosso, ma per soli 472 miliardi di dollari. Pari al 21% del Pil. Più o meno come l’Italia oggi.

Perché loro sì e noi no?

Ma fra Regno Unito e Italia in termini macroeconomici ci sono due differenze importanti (ce ne sono molte di più, lo so, grazie, ma qui contano le due che ti dico). La prima è la più ovvia, e se permetti te la lascio spiegare in modo ottimo dall’amico Tommaso Sinibaldi, sempre chiaro e documentato.

La seconda differenza è un po’ più per iniziati, ma nemmeno tanto. La Gran Bretagna, come del resto gli Stati Uniti, riesce a prendere in prestito a tassi bassi, e a investire all’estero a tassi alti, per cui, nonostante abbia con l’estero un debito netto, invece di pagare interessi netti incassa interessi netti. Perché la Gran Bretagna paghi interessi bassi è chiaro: il rischio paese è molto basso, essendo fuori dalla zona euro. I tassi sui titoli pubblici UK, ad esempio, sono scesi ultimamente sotto quelli dei mitici Bund. Perché incassi interessi alti è altresì chiaro: la Gran Bretagna ha una posizione attiva in termini di investimenti diretti esteri. Significa, per capirci, che nel 2009, mentre gli investitori stranieri possedevano imprese in Gran Bretagna per 600 miliardi di sterline, la Gran Bretagna possedeva imprese all’estero per 1000 miliardi di sterline. E un’impresa, se la scegli bene, rende più di un titolo di Stato. Naturalmente sui titoli la Gran Bretagna ha una posizione passiva, che compensa, in termini di stock, quella attiva sugli investimenti diretti. Ma siccome questi rendono di più, nel 2009 i redditi esteri netti da capitali della Gran Bretagna erano pari al +1.48% del suo Pil. E i nostri al -1.64% (sostanzialmente a parità di debito netto/Pil). Il nostro problema è che ci stiamo indebitando con l’estero per pagare gli interessi all’estero. Capisci, vero, cosa significa? E chi lo sta facendo è il settore privato, per due terzi. E ora penso che tu intuisca anche quali saranno le conseguenze di una manovra che impoverirà ulteriormente una parte consistente di questo settore.

Conclusione

La Gran Bretagna, invece, è nella felice posizione di chi si fa pagare... per prendere soldi in prestito!Quindi tranquillo: Cameron sta meglio di noi e anche della Merkel. Ed è anche e soprattutto per questo che preferisce starsene fuori. Chiamalo scemo...

P.s.:
Scusate se non parlo della manovra. Mi sembra che si commenti da sé, e del resto l'hanno commentata tutti. E allora, forse è più utile chiarire i concetti di base...

mercoledì 7 dicembre 2011

La follia dell'euro

Siccome va di moda dire che gli economisti statunitensi ce l’hanno con l’euro perché sono invidiosi, e che gli Usa stanno cercando di affossare l’euro perché lo temono (!), allora faccio una piccola aggiunta alla lista di “quelli che l’avevano detto” (per inciso: Krugman chiarisce bene quanto poco gli americani avessero da temere dall’euro: “Who’s afraid of the euro”, Fortune, 27 aprile 1998).
Dopo tanti economisti statunitensi e ortodossi vi propongo un economista britannico e eterodosso. Lo faccio con piacere, perché è un amico, e ci tengo particolarmente a farvi conoscere il suo contributo, visto che in altre sedi italiane non è stato possibile pubblicarlo (mi riferisco, ovviamente, ai forum “di sinistra” che sono andati avanti tutta l’estate proponendo il vacuo delirio di padri più o meno nobili). Intanto, ve lo presento, così capite subito che aria tira:


Tony Thirlwall

Per chi non lo conosce: ha studiato a Cambridge. Allievo e poi biografo di Kaldor, è riconosciuto come l’esponente più autorevole del pensiero post-keynesiano. Ha insegnato all’università del Kent, è stato visiting a Princeton, Cambridge, ecc., è stato consulente per l’African Development Bank, l’Asian Development Bank, l’Unctad ecc., ha scritto 192 saggi di cui 107 articoli su riviste, appartiene al 5% degli autori più citati ed è autore di un modello di crescita economica che ha dato origine a 171 lavori scientifici di rilevanza internazionale.

Nota: il testo dell’articolo dal quale vi propongo qualche citazione, e che vi suggerisco di leggere nella sua versione integrale, è alla base dell’audizione che Tony svolse nello stesso anno presso il “Treasury select committee on the UK entry into the euro”, dal titolo “The euro and regional divergence in Europe”. Paese che vai, tecnici che trovi...

Da “The folly of the euro”, Window on Work, no. 4, pp. 4-9 (1998).
Pag. 4 “For some, the purpose of the single currency is to further promote trade in Europe by reducing transaction costs and avoiding exchange rate fluctuations... If the single currency creates a deflationary zone in Europe, which I believe it will, the euro will jeopardise trade. It could even give rise to protectionist sentiment.” (Secondo alcuni lo scopo della moneta unica sarebbe quello di promuovere ulteriormente il commercio in Europa, riducendo i costi di transazione e evitando le fluttuazioni del cambio... Se la moneta unica creerà un’area deflazionistica in Europa, come credo accadrà, l’euro comprometterà il commercio, e potrà perfino portare al risorgere di atteggiamenti protezionistici).

Pag. 5 “The argument that a single currency is necessary for the completion of the Single Market is, in fact, the reverse of the traditional theory of optimum currency areas which is that an optimum currency area depends itself on the degree of factor mobility.” (L’argomento secondo il quale una moneta unica è necessaria per il completamento del Mercato Unico, in effetti, rovescia la consueta teoria delle aree valutarie ottimali, secondo la quale un’area valutaria è ottimale se i fattori di produzione hanno una sufficiente mobilità al suo interno).

Pag. 5 “even if a single currency was an aid to the mobility of the factors of production, factor mobility cannot be regarded as a panacea for depressed regions or countries that have no weapons of economic policy to protect themselves. After decades of migration from the north to the south of Britain, and from the south to the north of Italy, the regional divide in these countries is as pronounced as ever.” (Anche se la moneta unica aiutasse la mobilità dei fattori, quest’ultima non può essere considerata come una panacea per regioni depresse che non hanno altre armi a disposizione per proteggersi. Dopo decenni di migrazione dal nord al sud dell’Inghilterra, e dal sud al nord dell’Italia, il dualismo regionale di questi paesi è più che mai accentuato).

Pag. 5 “We can all unite behind the desire for peace and cooperation in Europe, as we can behind the virtues of motherhood and apple pie, but the euro as the route to political union, even if that is desirable, is fraught with danger, and could just as well lead to the economic and political disintegration of Europe. Political wishful thinking often has the nasty habit of driving out common sense”. (Possiamo unirci tutti dietro lo stendardo del desiderio di pace e cooperazione in Europa, come possiamo farlo dietro le virtù della maternità o della torta di mele, ma anche se l’unione politica fosse un obiettivo desiderabile, l’euro rimarrebbe una strada irta di pericoli per conseguirlo, e potrebbe con uguale probabilità portare alla disintegrazione economica e politica dell’Europa. Il wishful thinking dei politici spesso ha la pessima abitudine di scacciare il buon senso).

E qui mi fermo. Non senza dedicare un affettuoso pensieri ai maestri che mi rimproverano di mancanza di visione, di aristocratico e controproducente arroccamento in una visione grettamente economicistica, insomma, di mancanza di quella che Gadda avrebbe chiamato “una certa moderna e pastrufaziana latitudine di visuali” (nella Cognizione del dolore). E invece “vorrei (Dio lo sa) non aver capito niente io e che avessero capito tutto gli altri” (sempre Gadda, ma nel Diario di guerra). Ma temo di dover ammettere che invece ho capito... e voi (credo) con me! Alla fine, dovremo rassegnarci all’idea che un tecnico con 200 pubblicazioni vale più di un tecnico con 20. As simple as that...

sabato 3 dicembre 2011

Euro: una catastrofe annunciata

Quando vengo chiamato a esprimermi in pubblico sul tema dell’euro, comincio citando un brano del Diario notturno di Flaiano:


“Illustre professore, in questa lettera troverà accluso un assegno di lire 50.000, che mi permetto di inviarLe a saldo del Suo onorario. Mentre La ringrazio per le Sue attente cure, che mi hanno grandemente giovato a superare il mio deplorevole esaurimento psichico, La prego di credermi, per sempre, il Suo riconoscente e devotissimo Napoleone IV.”

Cerco così di rompere il ghiaccio, ammettendo ironicamente che, dopo anni di bombardamento mediatico, anche chi ormai intuisce di avere preso una fregatura, nel sentirsi dire il contrario di quello che gli è stato ripetuto da tante “autorevoli” fonti, potrebbe avere la legittima impressione di trovarsi di fronte a un pazzo, o al solito blogger complottista e visionario. Credo sia per questo che tanti amici, forse perché essi stessi un po’ dubbiosi, forse perché desiderosi di appoggiarsi all’auctoritas di famosi economisti (ammetto che la mia sia scarsa), mi hanno chiesto di fare una piccola antologia di autori che avevano preannunciato i pericoli dell’euro.

Un compito facilitato dal lavoro di Lars Jonung e Eoin Drea. Forse non li conoscete. In effetti il secondo non lo conosce nessuno, perché lavora per una società di consulenza privata di Dublino, e ha solo due pubblicazioni accademiche; il primo invece (Jonung) è un economista con un curriculum nutrito (48 articoli di cui pochi su riviste molto buone, come l’American Economic Review, che è nelle top 20 per impact factor). Nel 2010 i due hanno pubblicato una rassegna delle opinioni espresse dagli economisti statunitensi sull’euro nel periodo dal 1989 al 2002 (qui trovate la versione working paper, l'articolo è stato pubblicato su Economic Journal Watch, vol.7, n. 1). Dettaglio: Jonung dal 2000 lavora per la Direzione generale per gli affari economici e finanziari della Commissione Europea. E, guarda caso, conclude che l’euro è una buona idea, della quale gli economisti accademici americani hanno parlato male perché legati a teorie vetuste come quella delle aree valutarie ottimali (AVO). Viene da chiedersi a quale altra teoria mai avrebbero dovuto rifarsi degli economisti nello studiare un problema di unificazione monetaria. In effetti, visti i risultati, forse quella del Big Bang sarebbe stata più appropriata. Ma lasciamo perdere.

Parentesi: in conflitto di interessi al mondo non c’è solo Lui, il Satiro. Certo, se in televisione intervistano un economista della Bce o della Commissione cosa volete che vi dica? Che vi ha tirato il pacco? Voglio precisare che l'economista fa bene, in quanto oste, a dire che il suo vino è buono. Il giornalista però fa male se non vi spiega che l'intervistato è un oste, e fa malissimo se non invervista anche un avventore. Capito mi avete? Andiamo avanti...

Per chi non sa come funzionano le riviste scientifiche, segnalo che un articolo uscito nel 2010 come minimo è stato pensato nel 2008 e scritto nel 2009. A quell’epoca, se lo ricordate, si riteneva che la crisi fosse un problema statunitense, e in Europa ci si illudeva che l’euro avrebbe aiutato a superarla. Da questa patetica certezza derivava la strafottenza dei due lanzichenecchi di Bruxelles. Purtroppo, fra la data del concepimento del loro pezzo memorabile, e la data della pubblicazione, è successo esattamente quello che la teoria delle AVO prevede: un’area che si dota di una moneta unica senza averne i requisiti (cioè senza essere un’AVO) andrà in pezzi al primo shock importante. E quindi Krugman ha potuto segnare un bel rigore a porta vuota definendo questo articolo “spectacularly ill-timed”. In effetti, cosa vuoi dire a un’apologia dell’euro che esce nel 2010... Paperoga non avrebbe saputo fare di meglio, come direbbe il professor Santarelli (PhD)!

Del porco non si butta via niente. Anche dalle porcate, come l’articolo in questione, si può trarre una qualche utilità. Io ne ho tratto alcune delle citazioni che vi sottopongo. Non voglio dimostrarvi che non sono pazzo. Voglio solo dimostrarvi che sono in buona compagnia. Vi presento alcuni compagni.


Rudiger Dornbusch.

Per chi non lo conosce: allievo di dottorato di Robert Mundell (premio Nobel per l’economia nel 1999), è stato professore di economia al MIT (3° istituzione al mondo nella graduatoria REPEC e nella graduatoria Reuters) dal 1975 al 2002, anno in cui è morto prematuramente di cancro. Un evento tragico, che nel suo caso lo diventa doppiamente, perché gli ha impedito di ottenere a sua volta il Nobel che certissimamente avrebbe ottenuto per i suoi meriti scientifici (346 pubblicazioni scientifiche di cui 112 articoli su rivista, di cui due sono fra i più citati nel dopoguerra, e un manuale di macroeconomia che è diventato il punto di riferimento di generazioni di economisti), e perché gli ha impedito di farsi due risate alle nostre spalle.

Da “Euro fantasies”, Foreign Affairs, vol. 75, n. 5, settembre/ottobre 1996.

Pag. 113: “The most likely scenario is that EMU will occur but will neither end Europe’s currency troubles nor solve its prosperity problems.” (lo scenario più probabile è che l’unione monetaria si farà ma non porrà fine alle difficoltà valutarie dell’Europa né risolverà i suoi problemi).

Pag. 115: “Once Italy is in, with an appreciated currency, the country will soon be back on the ropes, just as in 1992, when the currency came under attack.” (Una volta entrata l’Italia, con una valuta sopravvalutata <n.d.t.: l’euro>, si troverà di nuovo alle corde, come nel 1992, quando venne attaccata la lira).

Pag. 120: “The most serious criticism of EMU is that by abandoning exchange rate adjustments it transfers to the labor market the task of adjusting for competitiveness and relative prices... losses in output and employment (and pressure on the European central bank to inflate) will predominate.” (la critica più seria all’Unione monetaria è che abolendo gli aggiustamenti del tasso di cambio trasferisce al mercato del lavoro il compito di adeguare la competitività e i prezzi relativi... diventeranno preponderanti recessione, disoccupazione (e pressioni sulla Bce affinché inflazioni l’economia)).

Pag. 121: “Italians dream that the Ecb will make their life easier than the Bundesbank does now... The new central bank is certain to establish itself at the outset as a direct continuation of the German central bank” (gli italiani sognano che la Bce renderà la loro vita più facile di quanto faccia ora la Bundesbank... <ma> è certo che la nuova banca centrale si proporrà fin dall’inizio come continuazione diretta della banca centrale tedesca).

“If there was ever a bad idea, EMU it is” (p. 124). E questa ve la traducete da soli.


Paul Krugman

Per chi non lo conosce: studente di dottorato di Dornbusch, ha insegnato a Yale, Mit, Stanford e Princeton (sono tutte nella top ten mondiale). Ha conseguito nel 2008 il premio Nobel per l’economia, risultato di una carriera brillantissima, con 417 lavori scientifici di rilevanza internazionale, di cui 114 articoli su rivista, una decina dei quali si collocano nell’un per mille degli articoli più citati nel secondo dopo guerra. Blogger del New York Times, e autore anche lui di un manuale di economia diffusissimo.

Da “The euro: beware of what you wish for” Fortune (1998), disponibile su http://web.mit.edu/krugman/www/euronote.html.

“EMU wasn't designed to make everyone happy. It was designed to keep Germany happy - to provide the kind of stern anti-inflationary discipline that everyone knew Germany had always wanted and would always want in future.” (l’Unione monetaria non è stata progettata per fare tutti contenti. È stata progettata per mantenere contenta la Germania – per offrire quella severa disciplina antinflazionistica che tutti sanno essere sempre stata desiderata dalla Germania, e che la Germania sempre vorrà in futuro)

“The clear and present danger is, instead, that Europe will turn Japanese: that it will slip inexorably into deflation, that by the time the central bankers finally decide to loosen up it will be too late.” (il pericolo immediato ed evidente è che l’Europa diventi giapponese: che scivoli inesorabilmente nella deflazione, e che quando i banchieri centrali alla fine decideranno di allentare la tensione sarà troppo tardi).


Martin Feldstein

Per chi non lo conosce: 483 lavori scientifici di cui 198 articoli su rivista di cui cinque nel top un per mille come citazioni, insegna a Harvard (riconosciuta prima università al mondo nell’ambito delle scienze economiche), è presidente emerito del National Bureau of Economic Research (andatevi a vedere cos’è, per avere un’idea), e editorialista del Wall Street Journal. Insomma, come i due sopra, è uno di passaggio.

Da: “EMU and international conflict”, Foreign Affairs, vol. 76, n. 6, novembre/dicembre 1997:

Pag. 61: “Instead of increasing intra-European harmony and global peace, the shift to EMU and the political integration that would follow it would be more likely to lead to increased conflicts within Europe” (invece di favorire l’armonia intra-Europea e la pace globale, è molto più probabile che il passaggio all’unione monetaria e l’integrazione politica che ne conseguirà conduca a un aumento dei conflitti all’interno dell’Europa).

Pag. 62 “Although 50 years of European peace since the end of World War II may augur well for the future, it must be remembered that there were also more than 50 year of peace between the Congress of Vienna and the Franco-Prussian War. Moreover, contrary to the hopes and assumptions of Monnet and other advocates of European integration, the devastating American Civil War shows that a formal political union is no guarantee against an intra-European war”. (anche se i 50 anni di pace dalla fine della seconda guerra mondiale fanno ben sperare, occorre ricordare che ci furono più di 50 anni di pace fra il congresso di Vienna e la guerra franco-prussiana. Inoltre, contrariamente alle speranze e alle supposizioni di Monnet e degli altri fautori dell’integrazione europea, la devastante guerra di secessione americana ci ricorda che un’unione politica formale non costituisce di per sé una garanzia contro una guerra intra-europea).

Pag. 69 (dedicata al Sarkonano): “What is clear is that a French aspiration for equality and a German expectation of hegemony are not consistent” (Quel che è chiaro è che l’aspirazione francese all’uguaglianza non è compatibile con le aspettative tedesche di egemonia).

Pag. 72 “A critical feature of the EU in general and EMU in particular is that there is no legitimate way for a member to withdraw... The American experience with the secession of the South may contain some lessons about the danger of a treaty or constitution that has no exits.” (un aspetto cruciale dell’Unione Europea in generale e di quella monetaria in particolare è che i paesi membri non hanno un modo legittimo di ritirarsi... L’esperienza americana, con la secessione del Sud, potrebbe offrire qualche lezione sui pericoli di un trattato o di una costituzione che non offre vie di uscita).


Dominick Salvatore

Per chi non lo conosce: insegna alla Fordham University di New York, è editor del Journal of Policy Modeling, autore di 138 lavori scientifici di cui 81 su riviste, molte di primaria importanza, e anche lui autore di un manuale di economia molto diffuso e apprezzato (insisto sul fatto che queste persone non solo sono tutte molto qualificate, ma sono di fatto quelle che hanno insegnato l’economia al mondo coi loro manuali, il che significa, di converso, che l’universo mondo – con l’eccezione di qualche politico europeo decotto – ha riconosciuto loro questa autorevolezza).

Da: “The common unresolved problems within EMS and the EMU”, American Economic Review, vol. 87, n. 2, pp. 224-226.

Pag. 225: “Moving to a full monetary union in Europe is like putting the cart before the horse. A major shock would result in unbearable pressure within the Union because of limited labour mobility, inadequate fiscal redistribution, and a ECB that will probably want to keep monetary conditions tight in order to make the euro as strong as the dollar. This is surely the prescription for major future problems” (Muovere verso una compiuta unione monetaria dell’Europa è come mettere il carro davanti ai buoi. Uno shock importante provocherebbe una pressione insopportabile all’interno dell’unione, data la scarsa mobilità del lavoro, l’inadeguata redistribuzione fiscale, e l’atteggiamento della Bce che vorrebbe probabilmente perseguire una politica monetaria restrittiva per mantenere l’euro forte quanto il dollaro. Questa è certamente la ricetta per notevoli problemi futuri).


Und so weiter, und so fort (per i germanofili).

Siccome sono prolisso, potrei continuare per ore, perché di esempi ce ne sono a tonnellate. Ma preferisco che sia la qualità, piuttosto che la quantità, a farvi intuire quanto è stata gigantesca la presa in giro. Non so se è chiaro. Non sto dicendo che siccome loro sono importanti e noi siamo dei poveracci allora hanno ragione loro. No, no! Questo gioco non mi interessa: vincere così sarebbe troppo facile, se uno andasse a vedere le credenziali scientifiche di quelli che si sono espressi (e si esprimono) in senso contrario. Vi sto facendo vedere che era assolutissimamente chiaro quello che sarebbe successo, parola per parola, virgola per virgola. Mi dispiace per voi. Io nel 1997 mi ero espresso così. Non avevo capito tutto, ma qualcosa avevo capito. E voi cominciate a capire?


Dalle Tuileries

Il vostro riconoscente e devotissimo Napoleone V.


P.s.: nella pagina accanto (la 409) a quella dell’aforisma che ho citato, comme par hasard, trovo quest’altro:

“Oggi, lettura attenta di un giornaletto di fantascienza. Come resteranno male i nostri ragazzi quando, invece di salpare in astronave alla conquista di altri pianeti, saranno mandati alla terza guerra mondiale, con le solite scarpe di cartone”.

C'è solo un errore di numerazione. La terza l'abbiamo già persa. La quarta è quella della quale parla Feldstein. Speriamo non sia un menagramo...

venerdì 2 dicembre 2011

Coming out: sono antitaliano (o no?)

Nel dibattito sull’euro inevitabilmente si urta contro l’argomento ariano: ci meritiamo quello che stiamo passando perché i tedeschi sono migliori di noi. Sono entrato più volte nel merito logico-scientifico (inesistente) di questi argomenti, e ci tornerò ancora, perché il punto è tutto lì. Oggi voglio solo ricordare che questo è un film già visto, e che si possono dolorosamente constatare e tenacemente combattere le inefficienze del nostro paese e l'inadeguatezza della sua classe politica senza vedere come unica soluzione la sua annessione alla Germania (sulla cui classe politica occorrerebbe avere uno sguardo più accorto ed equanime).

Consegno queste righe a Ciuffini, che ha giustamente e affettuosamente rimproverato le mie intemperanze verbali (forse le scuserà vedendo quali sono i miei modelli letterari), a Ermes, per segnalargli che sono molto più critico verso l’Italia di lui (ma amo l’Italia e sono fiero di essere italiano), e alla mia adorata compagna, secondo la quale io e Gadda siamo due disadattati. Giudizio del quale apprezzo soprattutto quello che a me manca: il dono della sintesi.

Se c’è una soddisfazione che questo dibattito mi dà è quella di essere sempre dalla parte sbagliata insieme alla persona giusta (Gadda, Krugman,...).

Buona lettura.

Dal fronte...

20 settembre 1915
I nostri uomini sono calzati in modo da far pietà: scarpe di cuoio scadente e troppo fresco per l’uso, cucite con filo leggero da abiti anziché con spago, a macchina anziché a mano. Dopo due o tre giorni di uso si aprono, si spaccano, si scuciono, i fogli delle suole si distaccano nell’umidità l’uno dall’altro. Un mese di servizio le mette fuori uso.

Chissà quelle mucche gravide, quegli acquosi pancioni di ministri e di senatori e di direttori e di generaloni: chissà come crederanno di aver provveduto alle sorti del paese con i loro discorsi, visite al fronte, interviste, ecc. – Ma guardino, ma vedano, ma pensino come è calzato il 5° Alpini!

Gli Italiani sono tranquilli quando possono persuader sé medesimi di aver fatto una cosa, che in realtà non hanno fatto; il padre che ha speso dieci mila lire per l’educazione del figlio, pensa: “ho speso dieci mia lire; certo mio figlio farà bene; perché? perché ho speso 10000 lire” e magari il figlio si suicida: e il padre dice allora: “Oh come?” e non pensa neppure di avere qualche colpa. Così Salandra, così il re, così tutti.

24 luglio 1916
Quand’è che i miei luridi compatrioti di tutte le classi, di tutti i ceti, impareranno a tenere ordinato il proprio tavolino da lavoro? a non ammonticchiarvi le carte d’ufficio insieme alle lettere della mantenuta, insieme al cestino della merenda, insieme al ritratto della propria nipotina, insieme al giornale, insieme all’ultimo romanzo, all’orario delle Ferrovie, alle ricevute del calzolaio, alla carta per pulirsi il culo, al cappello sgocciolante, alle forbici per le unghie, al portafogli privato, al calendario fantasia? Quando, quando? Quand’è che questa razza di maiali, di porci, di esseri capaci soltanto di imbruttire il mondo col disordine e la prolissità del loro atti sconclusionati, proverrà alle attitudini dell’ideatore e del costruttore, sarà capace di dare al seguito alle proprie azioni un legame logico? Porci ruffiani, capaci solo di essere servi, e servi infedeli e servi venduti, andate al diavolo tutti. Non siete degni di chiamar vostri figli i morti eroici. Combattere qui per sentire un lurido cane troja ladro e lenone d’un senator Barzellotti che fa quello che fa, e impunemente: combattere sapendo che Giolitti e Bertolini e altri escrementi organizzati a dominare il paese non sono ancora stati scannati, e che i loro figli non sono stati espulsi dallo Stato: che gusto è? Bene: basta, altrimenti passo la mattina a scrivere ingiurie al mio paese, dove viceversa il coraggio e l’eroismo non mancano. Ma il disordine c’è: quello c’è, sempre, dovunque, presso tutti: oh, se c’è, e quale orrendo, logorante disordine! Esso è il mare di Sargassi della nostra nave.

7-VIII-916
Con soddisfazione (parlo di soddisfazione meramente intellettuale) vidi stampate qui, dall’ufficio del Com.do Supremo, e per bocca degli uff.li austriaci, le ragioni dei nostri insuccessi nell’attacco: le ragioni da me intuite da tanto tempo, ben prima di venire al fronte. E di questo mi pare d’aver sufficientemente parlato per aver il diritto di dire: “l’avevo detto io”. È questa una delle vanterie più triviali e più basse della nostra anima: e sarebbe triviale, bassa, porca, ruffianesca anche in me, se io avessi, in ciò dire, un sentimento d’amor proprio soddisfatto, uso Giolitti che aspetta avidamente la débacle per poter trionfare. – No, no, no, no: per carità: io guardo con dolore agli errori commessi, e con ansia e con rabbia e con mal di fegato assistevo alle loro conseguenze: guardo al passato con tristezza, senza alcuna gioia per quanto riguarda le mie intuizioni: vorrei essere un imbecille e che avessimo vinto: vorrei (Dio lo sa) non aver capito niente io e che avessero capito tutto gli altri, gli eroi e i comandanti, gli eroici morti e i loro condottieri.

Canove, 11 settembre 1916, ore 18.
Noris tornò, ma mi disse che il fotografo non sapeva nulla delle mie fotografie e cascò dalle nuvole. Questo è l’ordine e la cura che gli Italiani pongono nell’accudire ai loro interessi, al loro commercio: e poi ci si meraviglia, o meglio gli Italiani si meravigliano, quando la Germania intraprende il commercio suo sul mondo, impadronendosi di tutti i mercati. – Speriamo che altrettanto non faccia della nuova film, quella puttana porca sfondatissima stroiazzata vacca d’una moglie del fotografo, cagna asinesca e bubbonica: altrimenti le pianto una grana che non finisce più.

27 ottobre 1915
Il buon Marchini dice di essere individualista, di non voler adattarsi all’idea dei più, di aver in ripugnanza le guerre, ecc. ecc. Fin qui, benone. Ma quando gli chiesi se egli creda che una persona assalita debba difendersi, mi rispose che sì; quando gli chiesi se la Francia, se la Russia avevano diritto di lottare o dovevano darsi mani e piedi legate alla Germania, mi rispose che dovevano lottare. E allora solo l’Italia doveva lasciarsi fregare?

Dalle retrovie...

La mia risposta all'ultima domanda è: no.

Per favore leggete Cesaratto e Stirati (2011) "Germany and the European and Global Crises", International Journal of Political Economy, 39, 56-86, o almeno Marcello De Cecco "A che serve spezzare le reni alla Grecia". E riflettete, riflettete però con la vostra testa, non con quella dei fini strateghi che vi hanno messo in questa situazione.

Vi faccio una semplice domanda di goofynomics: secondo voi, è possibile indebitarsi se nessuno ti presta soldi? E il creditore, la banca, non dovrebbe forse interrogarsi sul merito di credito del debitore? Non lo fa forse con noi, quando chiediamo un mutuo? E secondo voi non era assolutamente evidente alle banche tedesche, quando estendevano prestiti ai paesi periferici, che questi sarebbero stati assolutamente incapaci di restituire i prestiti ricevuti? Secondo voi i grafici che ho riportato nel post Keynes vs. Tabellini li conoscevo solo io? Solo io sapevo che la Spagna ha il secondo debito estero al mondo?

Sarà...

A me sembra che invece di "virtù" ci sia stata tanta furbizia. Il gioco dei "virtuosi", di quelli che tanti di noi continuano ad ammirare, nel disperato tentativo di ignorare di esser stati presi in giro, è abbastanza evidente:

"Facciamo indebitare la periferia per sostenere la nostra domanda, tanto poi la valutazione asimmetrica e scioccamente moralistica dei fenomeni finanziari imposta dal pensiero ortodosso permetterà, se le cose vanno male, di dare la colpa ai debitori... e la nostra cadrèga di politici tedeschi sarà salva, anche perché alle brutte la Bce farà gli interessi nostri, anche se i nostri conti pubblici non sono in ordine".

Perché non lo sono, come ci ricorda De Cecco. Anche e soprattutto in Germania ha funzionato il meccanismo della "nazionalizzazione" del debito generato da scellerate (pardon, volevo dire "virtuose") strategie aziendali della finanza privata, e ce lo ricorda con sdegno il Sole 24 Ore (non il giornalino della parrocchia). La crisi greca, che si sarebbe potuta risolvere comunque con risorse relativamente limitate (vedi sempre il Sole 24 Ore), è stata drammatizzata, guarda caso, proprio nel momento in cui la "virtuosa" Germania ha constatato di essere stata superata, come paese esportatore, dalla Cina, e quindi le conveniva, per i soliti motivi elettoralistici, indebolire l'euro, e dare la colpa agli altri, cioè a noi. Siamo alla mercè di ogni sindrome pre-elettorale della Merkel. Un intero continente, la culla della civiltà occidentale, è alla mercè dei suoi squilibri ormonal-sondaggistici. Questo è il problema.

Secondo me questa non è visione, è solo la triste, ricorrente, letale incapacità di gestire una vittoria che ha caratterizzato tutte le guerre del XX secolo: la prima, la seconda, e la terza. Perché credo che anche voi, come me, vediate che gestire una sconfitta è più facile che gestire una vittoria. Passato l'orrore ("La fila di soldati sulla strada d'oltre Isonzo: li credo rinforzi italiani. Sono tedeschi!"... e di fare rafting a ottobre non se ne parlava, povero Gadda), passato l'orrore rimane un paese da ricostruire, e questo porta coesione sociale e stimolo all'economia.

Ma gestire la vittoria impone uno sforzo sovrumano, quello di resistere alla tentazione di stravincere. Non ha resistito la Francia dopo la prima guerra mondiale, e ha imposto alla Germania le condizioni onerose che, come Keynes aveva previsto, hanno concorso all'avvento del nazismo. Non hanno resistito gli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, imponendo al mondo un sistema monetario internazionale basato sulla loro valuta nazionale, che, come Keynes aveva previsto, ha portato a gravi sbilanci e a ricorrenti crisi finanziarie (non dimentichiamoci che senza la crisi americana noi staremmo ancora vivacchiando). E non ha resistito la Germania, dopo la terza guerra mondiale, conclusasi con il Trattato sull'Unione Europea, spingendo troppo oltre la sua politica mercantilista, e ponendo le condizioni per il crollo del sistema. Questa non è virtù e non è visione.


Che poi non ci sia visione nemmeno nei nostri politici, sono d'accordo. Ma fra un'assenza di visione italiana e un'assenza di visione tedesca preferisco quella italiana, non fosse altro che per rispetto dei nostri morti. E ve lo dice uno che è "germanico in certe sue manie di ordine e di silenzio", come quell'altro disadattato di don Gonzalo Pirobutirro.

In "international finance" si chiamerebbe "home bias". E così vi ho fatto vedere che sono (anche) un tecnico (disadattato).

Fonte dei dati (sempre e comunque)
Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, Garzanti.